I numeri dei podcast in Italia

Quanti sono, in quanti li ascoltano e quanti ascolti fanno, per quello che possiamo dirne

di Gabriele Gargantini

(AP Photo/Paul White)
(AP Photo/Paul White)

Il 2021 è l’anno dei podcast. Anche il 2020 era stato l’anno dei podcast. Pure il 2019 lo era stato, «indubbiamente». E al momento tutto fa pensare che anche il 2022 sarà “l’anno dei podcast”: qualcuno già lo dice. In effetti, negli ultimi anni e ancora più negli ultimi mesi è cresciuto il numero di nuovi podcast – compresi vari del Post – così come sono aumentati quelli di successo: e si parla con sempre maggiore frequenza di iniziative, acquisizioni e accordi da parte di grandi aziende, ognuna interessata a prendersi una fetta di questo crescente e promettente settore.

Non ci sono dubbi che i podcast siano cresciuti anche in Italia, talvolta trovando perfino efficaci modelli di business. Risulta però ancora molto difficile avere numeri esatti, puliti e precisi su quanti siano i podcast italiani, quanto siano ascoltati e, soprattutto, quanti siano complessivamente i loro ascoltatori. Non è un problema solo dei podcast: riesce ugualmente difficile dire con certezza, e con metriche condivise, quante persone abbiano visto un programma in tv o una serie in streaming, oppure ascoltato una certa canzone o letto un determinato libro. Ma almeno per i podcast, qualche numero si può ricavare.

Gli ascoltatori
Quando si parla di podcast ascoltati in Italia, i dati citati più spesso arrivano dagli studi condotti da due grandi società di ricerche di mercato: Ipsos e Nielsen. Secondo dati raccolti lo scorso aprile da Nielsen, le persone che in Italia avevano ascoltato almeno un podcast nell’anno precedente erano 14,5 milioni. Un dato in lieve crescita rispetto al 2020 e in notevole crescita rispetto a quelli del 2019 e del 2018. Ma lo studio era commissionato da Audible, la divisione di Amazon che si occupa di contenuti audio, ed era di manica piuttosto larga nel definire cosa potesse essere un podcast.

In generale sono quindi considerati più utili i dati forniti da Ipsos, i cui studi escludono sia gli audiolibri che la cosiddetta catch-up radio (la radio in differita, con puntate o parti di esse ascoltate o scaricate come se fossero podcast), e in cui si cerca di capire quante persone abbiano effettivamente ascoltato un vero podcast nell’ultimo mese. I dati Ipsos, raccolti a luglio ed elaborati sulla base di interviste online fatte a un po’ più di duemila persone tra i 16 e i 60 anni, stimavano che nel mese precedente «circa 9,3 milioni di persone» avessero ascoltato almeno un podcast. Anche nel caso di Ipsos, il dato mostrava «una crescita lieve ma che consolidava la tendenza positiva registrata lo scorso anno».

I dati di Ipsos e Nielsen sembrano comunque essere abbastanza in linea: i milioni di ascoltatori di differenza potrebbero essere persone che hanno solo provato ad ascoltare podcast e altre che ascoltano contenuti audio che Nielsen considera podcast e Ipsos invece no. E sono allineabili ad altri dati simili raccolti da Statista, anche in quel caso sulla base di interviste a poche migliaia di persone, in questo caso di età compresa tra i 18 e i 64 anni.

I podcast, per cominciare
Un altro modo per provare a capire quanto è grande e quanto è cresciuto il settore dei podcast in Italia è guardare quanti sono quelli in italiano. Da questo punto di vista l’analisi più approfondita l’ha fatta Alessandro Piccioni, podcaster e fondatore dell’agenzia di comunicazione Tonidigrigio. Piccioni ha usato i dati disponibili su Listen Notes, da lui definito «il più importante motore di ricerca nell’ambito Podcast per quantità e qualità delle informazioni». Non sono dati assoluti, ma visti i tanti modi e luoghi in cui e su cui un podcast può essere fatto e pubblicato, sono i migliori disponibili.

Secondo i dati raccolti da Piccioni, ad agosto c’erano più di 25mila podcast in italiano, oltre 10mila dei quali pubblicati durante il 2020. «In sostanza», ha scritto Piccioni, «i podcast prodotti dal 2004 al 2019 rappresentano il 36 per cento dell’attuale offerta di podcast italiani». Tra le molte altre cose, nella sua approfondita analisi Piccioni ha poi diviso i podcast per argomenti (le categorie principali risultano essere “cultura e società”, “arte” e “musica”) e ha notato che meno di un podcast italiano su tre è composto da più di tre episodi, e solo il 29 per cento dei podcast ne ha almeno 20.

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L’analisi ha evidenziato inoltre come, tra i podcast presenti, moltissimi non siano stati aggiornati nel 2021: perché abbandonati presto dai loro autori oppure perché semplicemente conclusi. Piccioni ha individuato poi quello che si può definire il “podcast più vecchio d’Italia” tra quelli ancora indicizzati (lo faceva Jacopo Fo, e i primi episodi risalgono al 2004) e il più longevo (uno dei Radicali del Friuli Venezia Giulia, nato nel settembre 2004 e ancora attivo). Il 2004 è tra l’altro l’anno in cui i primi articoli accennarono a quella nuova cosa che era il “podcasting”, e che nel farlo usarono un neologismo che descriveva una tecnologia, non un tipo di contenuto.

Piccioni si sta ora occupando – insieme con Assipod, l’Associazione Italiana Podcast – di una indagine (ancora in corso) che «si propone di mappare e individuare alcuni aspetti del mondo degli autori, produttori e creatori di podcast in Italia». Ed è anche autore di “Leggende Metropolitane”: un podcast di cui sta per arrivare la terza stagione e che è «dedicato a miti e leggende del folklore moderno». Spiega che è partito con «ascolti molto contenuti, legato soprattutto alla cerchia di amicizie», ma che ora viaggia «tra i tremila e i quattromila ascolti mensili». Sono tanti? Sono pochi?

Appunto: gli ascolti
Risulta ben più difficile avere dati esatti su quanto siano effettivamente ascoltati i podcast in Italia. Perché i podcast sono ospitati e ascoltati su molte piattaforme diverse, le quali non hanno particolare interesse a comunicare nel dettaglio i loro numeri assoluti. E perché – un po’ come succede in molti altri contesti – è difficile mettersi d’accordo su cosa rappresenti un ascolto, cioè su quanti secondi o minuti debbano passare prima che un determinato episodio si possa considerare “ascoltato”.

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Seppur ognuno per il suo pezzettino, questi dati sono però a disposizione delle aziende e delle società interessate, oltre che degli autori e gestori dei singoli podcast. Chi si occupa dei podcast per il Post, per esempio, può consultare – attraverso i servizi dell’azienda Spreaker – i dati sugli ascolti dei singoli podcast e dei loro episodi sulle piattaforme (che si sommano a quelli, ormai largamente predominanti, generati dall’apposita app del Post, qui per iOS e qui per Android). E scoprire, tra le altre cose, che c’è ancora qualcuno che negli ultimi giorni ha ascoltato Wembley, il podcast del Post sugli Europei di calcio vinti dall’Italia.

Per avere qualche ordine di grandezza: l’esperienza di Morning, il podcast quotidiano del vicedirettore del Post Francesco Costa – per settimane in cima alle classifiche italiane di Spotify e di Apple pur facendo la gran parte dei suoi ascolti, quasi centomila ogni giorno quando era aperto a tutti, sull’app del Post – suggerisce che per finire al primo posto della classifica dei podcast di Spotify servano almeno diverse migliaia di ascolti quotidiani sulla piattaforma, e almeno centomila al mese.

Ma le classifiche dei podcast più ascoltati sulle piattaforme sono utili fino a un certo punto perché, come ha spiegato la giornalista Andrea De Cesco nella sua newsletter “Questioni d’orecchio” (ricca di analisi sul mercato dei podcast e di recensioni sulle nuove uscite), non sono noti i parametri che aziende come Apple o Spotify usano per stilare quelle classifiche. Come per le classifiche delle canzoni, non sono solo i numeri assoluti a determinarli, ma anche quanto veloce crescono – la loro “viralità” – e altri fattori più o meno variabili.  La classifica di Spotify, per esempio, è determinata da una non meglio precisata combinazione del conteggio complessivo dei follower di un podcast e dal numero di suoi ascoltatori unici “recenti”.

C’è poi un evidente – e legittimo – conflitto di interessi: alcuni dei podcast che Spotify include tra i più popolari del momento sono prodotti da Spotify stessa. Che, in generale e a prescindere da quali podcast produce, può avere interesse nel calcolare e presentare la sua classifica valutando determinati parametri più di altri, così da renderla più attraente e magari movimentata, col fine di far scoprire nuovi podcast ai suoi clienti.

Chiara Sagramola, che per Spreaker si occupa delle pubblicità nei podcast, dice che per quanto riguarda l’Italia l’azienda considera podcast di livello “medio/top” quelli che fanno «tra i 20mila e i 50mila ascolti settimanali», e che tra questi c’è «un 10 per cento di podcast che arriva oltre i 100mila ascolti a settimana». Sono numeri che prendono in considerazione gli ascolti fatti sia attraverso Spreaker, dal sito o sull’app, ma soprattutto fatti altrove: «il 79 per cento degli ascolti presenti su Spreaker», dice, «viene fatto sulle altre app di ascolto». Sagramola aggiunge anche che agli autori dei podcast «Spreaker offre la possibilità di decidere se rendere pubblico o meno il numero di ascolti» ma che «ormai quasi nessuno lo fa».

Qualche altro numero lo offre Francesco Tassi, amministratore delegato del “podcast network” Voisland e della “podcast media company» Vois. I podcast di Voisland, dice Tassi, nei primi 15 giorni di ottobre hanno fatto circa 855mila ascolti complessivi, provenienti da circa 454mila ascoltatori unici.

Marco Cappelli, che lavora nel marketing ed è autore del podcast “Storia d’Italia” dice invece che il suo podcast – da tempo ormai stabile tra i primi 100 nelle classifiche dei podcast più ascoltati fatte da Spotify e da Apple Podcast – fa «circa 70mila ascolti al mese». Il 40 per cento dei quali su Spotify («ma io sono uno di quelli per i quali Spotify pesa di meno», dice) e l’85 per cento tramite smartphone.

Un altro dato interessante è che circa il 70 per cento degli ascolti è generato da puntate uscite più di un mese prima. È un segno del fatto che il podcast è in crescita, perché c’è chi sta recuperando ora lo storico delle puntate ed è una conseguenza del fatto che, parlando per l’appunto di storia, le puntate non scadono, come invece succede per molti podcast legati all’attualità e agli eventi di un determinato giorno. Un altro dato di cui Cappelli va comprensibilmente fiero è quello sulla retention, che – in sintesi – indica quanto un episodio viene finito, non solo iniziato: per “Storia d’Italia” è vicina all’80 per cento.

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«Nel mio caso il catalogo vale tantissimo», dice Cappelli, che è autore di uno dei principali podcast italiani indipendenti, prodotti cioè in autonomia, senza il supporto di apposite società. Per raccontare la storia d’Italia nel suo podcast – che esiste dal 2019 e ha già superato il milione di ascolti totali – Cappelli è partito dalla battaglia di Ponte Milvio, combattuta nel 312 dopo Cristo, e ora che si avvicina al centesimo episodio si sta occupando del sesto secolo. Il suo ambizioso obiettivo è di arrivare fino ai giorni nostri, e dice che conta di metterci «circa mille episodi per arrivare all’unità d’Italia».

La crescita
I dati a disposizione di Sagramola, Tassi e Cappelli confermano anche che si arriva da un paio d’anni, e soprattutto da alcuni mesi, in cui i podcast italiani sono cresciuti, tra l’altro – a quanto sembra: è sempre complicato stabilirlo – con un’intensità paragonabile a quella di pochi altri paesi al mondo.

Pure stavolta c’entra il coronavirus, ma fino a un certo punto. «La pandemia non è stata positiva» dice Cappelli, perché «ha rotto le abitudini». Si può quindi dire che la pandemia e tutto ciò che ha comportato abbiano «giovato alla produzione di podcast, più che al loro ascolto». Concorda Tassi, che tra l’altro fa notare come «nei primi mesi del primo lockdown la produzione di podcast aumentò del 20 per cento, con un picco su quelli religiosi». Una rilevante crescita dell’ascolto sembra esserci stata più avanti, rispetto ai primi mesi della pandemia, e quindi soprattutto nel corso del 2021. «Nell’agosto 2021» ha detto Sagramola, i podcast italiani presenti su Spreaker erano «il 47 per cento in più rispetto all’anno precedente».

Spotify ha detto di recente che il suo catalogo di podcast in italiano nell’ultimo anno è cresciuto dell’89 per cento (una percentuale di poco superiore a quella del resto del mondo, in cui tra il settembre 2020 e il settembre 2021 sono stati aggiunti circa un milione e mezzo di podcast).

Per dare un’idea del «generale trend di crescita» di questi ultimi mesi (che tra le altre cose fa sì che ogni descrizione del mercato dei podcast più vecchia di qualche mese rischi di essere superata), fa gli esempi di due dei podcast di cui si occupa. Uno è Cose molto umane, di cui Tassi dice: «è sempre nella Top 10 dei podcast italiani di Spotify»: «ci era arrivato quando faceva 200mila ascolti al mese» e ora «ne fa quasi 500mila».

Un altro è Storie di Brand, passato nell’arco di qualche mese da «circa ottomila ascolti al mese» ai quasi settantamila di oggi. Tutto questo, aggiunge Tassi, senza che le posizioni dei podcast nelle classifiche siano cambiate troppo, segno del fatto che il numero di ascolti necessari a guadagnarsi una certa posizione in classifica è cresciuto nel tempo.

In riferimento ai dati sugli ascoltatori italiani di podcast presentati da Ipsos e Nielsen, presentati e commentati in “Questioni d’orecchio”, De Cesco dice che sono «verosimili» e che parlare di circa dieci milioni di italiani che hanno ascoltato almeno un podcast nell’ultimo mese «non è una stima impossibile».

Da qui in poi, già che ci siamo
È difficile aspettarsi che nei prossimi anni possano arrivare dati più esaustivi sugli ascoltatori di podcast in Italia, anche perché, come spiega ancora De Cesco, «mancano istituti di ricerca che fanno solo questo». Inoltre, se il numero degli ascoltatori totali può essere utile per dare una portata del fenomeno, è un dato di scarsa utilità per chi i podcast li fa e, soprattutto, per chi si occupa di renderli economicamente sostenibili.

Evidentemente, sono ben più importanti altri fattori. Primo fra tutti, quelli legati alle possibilità di monetizzare certi podcast di particolare successo assoluto (o di particolare rilevanza per un determinato target o una nicchia ben definita). In questo senso contano molto di più la disponibilità e l’efficacia di inserzioni pubblicitarie, o la volontà di un certo numero di ascoltatori di pagare per un determinato podcast. Da questo punto di vista, Sagramola dice che per un’azienda come Spreaker «non serve avere un grosso numero di ascolti, ma averlo costante», su cui per esempio risulta parecchio più semplice «fare proiezioni e previsioni di budget».

Sempre secondo Sagramola – tra l’altro autrice, non per conto di Spreaker, della newsletter di consigli “Orecchiabile” –, per quanto riguarda la raccolta pubblicitaria dei podcast «in Italia siamo ancora in una fase iniziale, molto iniziale». Secondo lei, nonostante le decine di migliaia di podcast a quanto pare già esistenti «c’è quindi ancora molto spazio per i podcaster», oltre che per chi volesse farci dentro pubblicità.

Tutto questo mentre tutte le principali aziende tecnologiche al mondo (anche Facebook) si muovono per prendersi la loro fetta di questo mercato. Mentre iniziano ad arrivare le traduzioni italiane di podcast stranieri, mentre si fanno sempre più frequenti i podcast abbinati a serie tv o i podcast seguiti dalla pubblicazione di un libro, mentre sempre più aziende offrono podcast in esclusiva (solo su Spotify, quelli in italiano sono già 14), e mentre già si parla delle prospettive dei “podcast interattivi”.

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